Stare insieme sognando lo stesso orizzonte
Le relazioni virtuose di campioni e allenatori, il passaggio del testimone tra generazioni. E quella scuola di atletica come “la Nasa dello sport italiano”.
[…] Lo sport fa famiglia, crea rapporti e vincoli, anche non consanguinei, ci si appartiene tutti perché si sogna lo stesso orizzonte. Nella premiata ditta dei record Mennea-Vittori non si accettavano confidenze.
Maestro e allievo si davano del lei. Intimi sul lavoro, ma estranei fuori. Andarono a Città del Messico con lo stesso scopo: prendersi la velocità. Sui duecento metri. E ci riuscirono il 12 settembre ’79. Quel 19”72 è ancora primato europeo. È stato record mondiale per quasi 17 anni. Fino al 1996 e al 19’’66 dell’americano Michael Johnson. Ci sono salti in avanti che non sfondano solo il tempo, ma che bucano anni. Quel giorno i due uomini si guardarono. Il più giovane aveva ventisette anni. Dovevano lasciarsi, dirsi le ultime cose, perché c’è un punto della vita in cui non si può più correre insieme. Si sarebbero di nuovo incontrati, entrambi erano sull’orlo di qualcosa. «Questa è la volta buona», disse il giovane. L’altro si meravigliò: non l’aveva mai sentito così sicuro e ottimista.

Aveva appena smesso di piovere. Il ragazzo corse come non aveva mai fatto in vita sua e superò il mondo. Si lasciò dietro l’infanzia, i complessi, il suo sud. Ci sono curve che ti appallottolano, sbandi, diventi piccolo, mentre ai lati i muri crescono. E ce ne sono altre dove sbuchi nella felicità. Pietro Paolo Mennea di Barletta corse la sua curva, senza perdere velocità, con la spalla sinistra più bassa.

E quel giorno l’Italia scoprì un altro Coppi. Correva, ma non in bicicletta. Veniva dal meridione, era magro, un po’ storto, molto contorto. Mennea dietro aveva un’Italia che studiava, non più dilettantistica, artigianale, ma anche competitiva. La sua fabbrica era la scuola di atletica di Formia. La Nasa dello sport italiano. A Formia s’inventava, si sperimentava, si provava il futuro. E si costruiva la scienza dei record.
Simeoni ci arrivò a 22 anni: «La camera nella foresteria era un letto e un armadio, era così triste che la ripitturai da sola. Gli attrezzi da palestra non esistevano, chiedevamo aiuto agli operai che lavoravano lì, spiegavamo cosa ci servisse e loro si mettevano a costruire attrezzi: la cintura con dentro la sabbia, la scarpetta di ferro e tanti altri accorgimenti. In cambio non chiedevano soldi, ma ci pregavano di fare buoni risultati». Salti, amore e fantasia. E un Made in Italy che nello sport avanzava nel mondo. Tutti insieme appassionatamente.