L’innovazione riscatta il “nucleo azzurro”
L’orgoglio della memoria per le vittorie e la rinascita di speranza e partecipazione in un progetto collettivo chiamato “cultura di una nazione”.
[…] Ma tornando allo sport nello specifico. Ognuno di noi guardandosi le spalle ha tre, quattro grandi momenti in cui ha vissuto un'emozione collettiva: per la mia generazione, oltre a Tardelli e Tomba, non può mancare quella lunga stagione iniziata con Azzurra e lo skipper Cino Ricci e continuata con Luna Rossa e Paul Cayard: per poche settimane ci ricordammo tutti di essere un popolo di navigatori, di essere gli eredi delle flotte commerciali dei genovesi, dei veneziani.
Di Marco Polo e Cristoforo Colombo. Andando un pochino indietro nel tempo lo stesso effetto lo fece Sergio Leone (che ispirò un Clint Eastwood che da pistolero si è trasformato negli anni in un monumentale regista) e Federico Fellini. Tutti a invidiarci. E noi a perderci nella grande bellezza. Ancora: la finale di Davis vinta da Adriano Panatta e Paolo Bertolucci contro il Cile di Pinochet nel 1976.

Viviamo in una distorsione mnemonica, un continuo flusso di eclissi di ciò che siamo e che potremmo essere. È la sindrome che Montanelli chiamava dell’anti-italiano. Siamo i peggiori nemici di noi stessi. Siamo sordi ai nostri stessi meriti.

Succede sempre. Fino a quando un campione non ci risveglia dal letargo, entra nei profondi meccanismi del “nucleo azzurro” e riaccende un senso di speranza, ottimismo, voglia di partecipazione a un progetto collettivo chiamato cultura di una nazione. Una costituzione morale che va e che viene e che rimane viva grazie all'unico antidoto che conosciamo nei confronti del declino: la cultura. La nostra storia.
Ce la farà Sinner? Se siamo qui a scriverne forse ce l'ha già fatta.